Se si passano in rassegna le architetture di Giulia de Appolonia si rimane stupiti dalla compattezza del regesto. Le opere sono tendenzialmente di stazza media e si riferiscono a concetti chiari, tanto da poter essere elencati: un principio insediativo essenziale, se non stringato, su cui campeggia un’architettura stereometrica, anch’essa essenziale; un’estrema attenzione all’attacco a terra dell’edificio che risulta molto più morbido rispetto alla stereometria soprastante, infine la massima chiarezza tettonica, chiarezza sul come gli elementi strutturali e di tamponamento si relazionano tra loro.
A dominare il tutto un tema ricorrente, quello del doppio, del bianco e nero, del duro e morbido giustapposti e contrapposti, un tema questo che de Appolonia è ben attenta a non far scadere nella retorica di tipo didascalico. Siamo dunque di fronte ad un’architettura sostanzialmente tersa, se non limpida, che tende a donarsi agli occhi al primo sguardo, eppure, nonostante questo donarsi, rimane in essa una certa riservatezza che appare studiata per preservare nell’opera una certa aura. Il punto è essenziale e va considerato al di là del caso particolare ed è così riassumibile: è possibile oggi trovare un accordo tra un’architettura dall’alto, autoriale e per certi versi dirigista, e un’architettura di segno contrario, ovvero un’architettura che fa proprio il gusto corrente e lo esalta portandolo persino alle estreme conseguenze? A questo quesito l’architettura italiana ha dato risposta proponendo degli oggetti che potremmo definire di media res, tali da porsi a cerniera tra l’autorialità e il gusto corrente.
Nel nostro percorso con “Viaggio in Italia” abbiamo incontrato molta architettura di questo genere e ne abbiamo tratteggiato i caratteri arrivando alla conclusione che allo stato attuale...
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