L’ipotesi di architettura di Vittorio Grassi trova ragione nella sua biografia. Grassi, milanese di adozione, si laurea al Politecnico di Milano in un momento storico ben preciso, segnato dal declino di quella temperie culturale che per approssimazione potremmo definire, prendendo a prestito la locuzione da Aldo Rossi, «architettura della città». Un’ipotesi, questa, estremamente teorica, se non ideologica, che concepiva l’edificio come atto conclusivo di un disegno a priori stabile della città. Un’ipotesi dirigista, che avrebbe dovuto far riferimento ad un sistema politico ed economico alternativo a quello capitalista. La generazione a cui Grassi appartiene, delusa dalle opere costruite della «architettura della città», ha voltato le spalle a questa ipotesi del tutto accademica. Specialmente a Milano la scelta è stata allora quella del realismo, ciò alla luce di un assunto che per fare architettura non ci sarebbe stato bisogno di un imbrigliamento ideologico così serrato e ormai fuori dal tempo.
Il realismo milanese, a cui Vittorio Grassi appartiene, solo una cosa prende dalla «architettura della città»: la convinzione che l’edificio, sempre e comunque, non può prescindere dal rapporto con la città o con l’ambiente circostante. Grassi già dai tempi della sua formazione si interessa allora degli aspetti tecnici dell’architettura, della definizione del suo corpo attraverso ciò che era mancato alle generazioni passate, ovvero il controllo delle tante componenti necessarie alla realizzazione di un edificio, non solo quelle specificatamente architettoniche. Coerentemente a questi presupposti egli va a lavorare al Renzo Piano Building Workshop, dove rimane per dieci anni fino a diventare uno degli associati dello studio.
Guardando il regesto delle opere di Grassi a prima vista non si...
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